martedì, gennaio 12, 2010

I fought the law and I won.

La mattina dell'11 gennaio arrivo in via Zamboni con la fedele bicicletta, la parcheggio ad economia perchè pare abbia il monopolio delle rastrelliere di tutta la zona universitaria, forse pensano di iniziare a farlo pagare sto parcheggio, e ricavarci qualche soldo, non so. Cammino sotto il portico allucinata un po' perchè sono agitata, un po' perchè mi sono addormentata alle cinque e quel poco che ho dormito mi sono sognata l'art. 132 della Costituzione, insomma niente di entusiasmante e che possa favorire sonni tranquilli. Non ero più abituata alla via Zamboni delle otto di mattina, tutta fatta di strade bagnate appena pulite e portico davanti al Teatro Comunale senza barboni, con la musica dell'opera che si diffonde in piazza Verdi e crea un effetto un po' sinistro a dir la verità; arrivo al numero ventidue e le porte di Palazzo Malvezzi sono chiuse, aspetterò qua fuori finendo di morire mi dico, ed in effetti mi appoggio ad una colonna e aspetto. Attira la mia attenzione una porticina dall'altra parte della strada che generalmente è chiusa, si intravede gente che entra ed esce, gente che entra e non esce, gente che guarda chi entra. E' una chiesa perdio. Entro o non entro.

Entro. Stanno iniziando le lodi mattutine ed i banchi sono tutti pieni, quindi rimango in fondo a formulare silenziose preghiere e a chiedermi come è successo che io sia entrata, guardo le altre persone che sono tutte lì per lo stesso motivo, ovvero tanti altri piccoli ipocriti come me, io mi sento così a volte, ipocrita, mossa dalla necessità, tendente solo al proprio fine, molto utilitarista, eppure comunque lo sto facendo e molti altri non lo fanno e magari così scopro qualche cosa che non ho ancora scoperto e che posso scoprire solo qui, in questo posto un po' misterioso e che mi sembra non ci fosse fino a ieri. Invece c'era, mi dicono così.
Le porte di Palazzo Malvezzi si sono aperte e così entriamo un po' titubanti nel chiostro, cerchiamo l'aula grande, ci sediamo. E così è qua che oggi in questo modo mi riconcilio con quello che sono e che volevo essere e scoprirò se è giusto, anche se tendenzialmente non sono queste le cose che fanno presagire, mai, semmai sono le cose che come i lampioni nel parco illuminano un pezzettino piccolissimo di visuale, eppure è quello che c'è e quello che bisogna farsi bastare.
Insomma la prima parte di questo Esame inizia e non mi voglio esprimere su quello che mi è successo in quel momento, ovvero mi è venuto da canticchiare un motivetto che non ricordo, stai zitta stai facendo un esame mi sono dovuta ripetere un paio di volte, e fuori c'era il grigio che in fondo non mi disturba, perchè dentro di me sono blu, blu come l'acqua che non è blu, blu come il cielo che non è blu.
Un'ora dopo sulla porta dell'aula 13 c'era anche il mio nome. Tre ore dopo era finito tutto.

venerdì, gennaio 01, 2010

L'arte dell'utile interiore.

E' oramai consuetudine (manca sì il presupposto soggettivo; ma quello oggettivo è assolutamente innegabile--> comportamento messo in atto nella convizione che sia prescritto dal diritto) che io il primo dell'anno stabilisca con quale canzone iniziare. Non voglio spendere parole inutili e svilenti di quello che rappresenta la poesia della canzone, l'arte dell'utile interiore, oserei chiamarla.

Radiohead - Fog

There's a little child
Running round this house
And he never leaves
He will never leave
And the fog comes up from the sewers
And glows in the dark

Baby alligators in the sewers grow up fast
Grow up fast
Anything you want it can be done
How did you go bad?
Did you go bad?
Did you go bad?
Somethings will never wash away
Did you go bad?
Did you go bad?